Mentre il tuono scende dalle nebbie subtropicali della sierra sovrastante, calici di rosato con il ghiaccio che tintinna in trasparenza; ma non sarà un'allegria di comodo, visto che l'acqua verde della piscina è semplicemente putrida ? La conferma giunge appena ridiscesi dalla casa di vacanze: nella città brulicante nell'unto di una calura soffocante, nel disordine caotico degli ambienti che si confonderà progressivamente con quello delle menti. Un formicaio di annotazioni, quello di Lucrecia Martel: la sensualità, l'ingordigia dell'osservare, l'immersione totale nel disordine incosciente del quotidiano. Una promiscuità dei sentimenti (che è la stessa di quel modo quasi incestuoso, appena sottolineato, di sfiorarsi negli ambienti soffocanti), che finisce per organizzarsi in una specie di storia dal malessere dilagante.
Opera prima (giustamente premiata a Sundance e Berlino) di una cineasta argentina dal talento certamente fuori dal comune, LA CIENAGA significa palude. Ed è infatti una faccenda tutta climatica: di come l'ostilità esasperata della natura finisca per stingere non solo sulle carni molli dei protagonisti. Ma sulla corruzione, la spossata rassegnazione che governa le loro relazioni, private e pubbliche.
Storie di vino e di sangue, di vite rincorse e morti appena esorcizzate: che non sono, però, quelle del film. Perchè LA CIENAGA è piuttosto l'espressione di un miracolo: che da tanta disperata confusione si faccia strada tanto fascino, e pure struggente. Che dalla somma di quelle nullità squallide e violente finisca per nascere una riflessione su come vita e morte si confondano nell'indifferenza. Ma si alimentino nella qualità di uno sguardo ispirato e pietoso.